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Commozione cerebrale nel motorsport, non è una botta in testa

Il motorsport è attento più che mai alla sicurezza dei propri piloti, ma c’è un nemico che fino a pochi anni fa era trascurato: la commozione cerebrale. Questo disturbo è sempre stato presente, ma solo negli ultimi anni le federazioni motoristiche hanno prestato maggiore attenzione. Oggi la tendenza è verso un approccio il più possibile prudente, volti soprattutto a limitare le conseguenze nell’ultimo periodo.

La commozione cerebrale, detta anche concussione, è un lieve trauma cranico che comporta una perdita temporanea della funzione del cervello. Sintomi come nausea, amnesia retrograda, perdita di equilibrio e di funzioni cognitive sono tipici della concussione. I sintomi si risolvono in tre settimane, tuttavia possono ricomparire e permanere anche per anni. E spesso viene scambiata con malattie più comuni, come l’influenza.

Ma questo non è l’unico problema. Infatti, secondo le ultime ricerche, più concussioni consecutive possono provocare danni permanenti al cervello, con conseguenze fisiche, cognitive e persino emotive. Possono, ad esempio, aumentare i casi di Alzheimer, di depressione, di ansia, persino di tendenze suicide. E nello sport, possono stroncare carriere e rovinare delle vite.

Nella NFL hanno fatto scalpore le storie di alcuni ex giocatori che, nemmeno quarantenni, facevano a fatica a ricordare le date del calendario o i nomi dei figli. Di fronte a queste situazioni, la federazione del football americano ha dovuto prendere provvedimenti seri, introducendo un protocollo che prevede monitoraggi prima, durante e dopo le partite, nonché programmi di recupero strutturati. Niente forzature, insomma.

Il mondo delle corse USA ha seguito da vicino lo sviluppo delle vicende della NFL, e ne ha seguito le orme. I racconti di piloti di alto livello, costretti a fermarsi per evitare problemi di salute seri, hanno gettato le basi per una maggiore consapevolezza del fenomeno.

Il campione IndyCar Dario Franchitti ha dovuto appendere il casco al chiodo per i troppi traumi ravvicinati, l’ultimo dei quali subito a Houston nel 2013. Oggi lo scozzese fa il consulente per il team Ganassi, e ha confessato di avere difficoltà di memoria e concentrazione. Dale Earnhardt jr ha ammesso in un’intervista di aver subito oltre venti commozioni cerebrali, e di averle nascoste per evitare uno stop prolungato. L’ex campione NASCAR XFinity si è ritirato a fine 2017. JD Gibbs, ex pilota e giocatore di football (e manager del team NASCAR di Joe Gibbs) è morto lo scorso febbraio per le complicazioni di stampo neurologico, frutto di anni di craniate consecutive.

Il mondo del motorsport, dunque, ha capito l’importanza di non trascurare il tema della commozione cerebrale, e si affida alla tecnologia per prevenirlo. Da qualche anno, ad esempio, è adottato il protocollo ImPACT, che fa uso di un test computerizzato per la diagnosi precoce. E’ il test a cui si è sottoposto Fernando Alonso dopo il misterioso incidente nei test di Barcellona del 2015.

In Inghilterra nel 2017 è stato inaugurato il progetto Rescue-Racer, nato dalla joint venture tra l’ente organizzatore del campionato turismo BTCC, la TOCA, e l’Università di Cambridge. Lo scopo del progetto è, oltre di migliorare le tecniche di diagnosi, anche di sensibilizzare i piloti sul tema. Perché la commozione cerebrale, in fondo, è più di una semplice botta in testa…

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