In questi giorni, come vi abbiamo raccontato, la IndyCar si è fermata per un paio di mesi per il coronavirus. L’obiettivo è di tutelare la salute di piloti, meccanici, spettatori…tutti, insomma. Quello che molti non sanno è che non è la prima volta che le monoposto made in USA si sono fermate per questioni legate alla salute. Nel 2001 la CART dovette cancellare la 600 Km al Texas Motor Speedway, per evitare che i piloti svenissero nel bel mezzo della corsa! Incredibile, ma vero.
Preambolo
Tra gli anni 90 e gli anni 2000, la Indycar aveva due campionati: la CART (acronimo di Championship Auto Racing Teams) e la IRL (Indy Racing League). Nato dal clamoroso scisma del 1996 in cui il circuito di Indianapolis ruppe con la CART e si organizzò in proprio, la IRL proponeva un campionato simile, ma alternativo, alla CART. Negli anni successivi i due mondi paralleli si fecero una concorrenza spietata, fatta soprattutto di gare sempre più veloci e spettacolari, per attirare più pubblico.
E fu proprio in questo spirito di concorrenza che la CART nel 2001 decise di approdare in Texas. Il tracciato alle porte di Fort Worth è di costruzione recente (è nato nel 1997), è lungo un miglio e mezzo e si contraddistingue per un angolo di banking elevato (tra i 20 e i 24 gradi). La IRL vi correva da sempre con risultati spettacolari. E fu così che la CART decise di provare: nel luglio del 2000 gli organizzatori firmarono un contratto triennale con la proprietà del circuito.
Tra dicembre 2000 e febbraio 2001 i team Indycar fecero i primi test al Texas Motor Speedway. Fin da subito emerse che le velocità sarebbero state molto elevate: nell’ultima sessione Helio Castroneves superò le 225 mph (360 Km/h) di media. Le velocità registrate nei test fecero sollevare fin da subito dubbi e preoccupazioni. Secondo molti giornalisti del settore, le vetture CART, con i loro motori V8 turbo e l’aerodinamica scarica, erano troppo prestanti per un ovale perennemente sopraelevato. I dubbi non bastarono a fermare il carrozzone: the show must go on.
La cronaca
Il 27 aprile 2001 la Indycar si ritrovò in Texas per le prove libere. Emerse fin da subito che le velocità delle vetture erano sottovalutate. Fin dai primi minuti, le medie sul giro salirono a livelli vertiginosi, raggiungendo le 236 mph (379 Km/h) in scia. Ciononostante la sessione del venerdì mattina proseguì liscia, senza intoppi. I guai iniziarono nel pomeriggio.
Nel secondo turno cronometrato, Mauricio Gugelmin sbattè in curva 1, subendo una decelerazione di oltre 66 G. Nell’impatto il brasiliano ex- F1 lamentò un blackout temporaneo, qualche contusione e tanta paura. Infatti, il pilota del PacWest Racing rinunciò a proseguire il weekend, e fece rotta verso casa.
Nelle libere del sabato avvenne un incidente simile, con protagonista Cristiano Da Matta. Il brasiliano del team Newman-Haas colpì duramente il muro in curva 3, con un angolo simile a quello di Gugelmin. Il futuro pilota Toyota in F1 ne uscì illeso, e prese parte alla qualifica.
Nonostante i due grossi impatti di cui sopra, il programma della Texas 600 della CART proseguì regolarmente. Il sabato pomeriggio si disputarono le prove ufficiali, con Kenny Brack autore della pole. Di lì in avanti le cose cambiarono: riunioni continue, sessioni cancellate, voci insistenti di un rinvio. Cosa stava succedendo?
Retroscena
I due incidenti di Gugelmin e Da Matta avevano destato dei sospetti. Probabilmente erano legati al famigerato dispositivo Handford (un flap che potenziava l’effetto scia sugli ovali veloci, ma che rendeva le vetture instabili e pericolose), ma anche alla velocità di cui si era discusso fin dai test. Ma qualcosa di nuovo, e inquietante, stava emergendo.
Steve Olvey, capo dello staff medico della CART, riportò ai giornalisti che due piloti erano andati al centro medico con degli strani sintomi. I due (che poi si scoprirono essere Alex Zanardi e Tony Kanaan) avevano lamentato disorientamento, offuscamento della vista e perdita di equilibrio. Il tutto dopo un run di almeno dieci giri. Patrick Carpentier, che si era fatto visitare per un polso infortunato a Long Beach, confessò che dopo essere sceso dalla macchina, impiegò oltre quattro minuti per riuscire a tenersi in piedi! Cos’era questa storia?
Olvey, preoccupato per questi sintomi strani, contattò Richard Jennings, docente di medicina dell’università del Texas. Jennings spiegò che il problema poteva essere legato alla forza G: come c’insegna l’esperienza dei piloti da caccia, esporsi ad una forza G superiore a 5,5 G per più di 7 minuti comportava una perdita di coscienza (G-LOC). Da un’analisi effettuata dai tecnici della NASA, i piloti subivano un carico di 6 G risultanti, che avrebbero dovuto sostenere per le quasi tre ore di gara.
Generalmente, i piloti di auto sono abituati a carichi di 4 o 5 G laterali. Ma se su una pista veloce come il Michigan International Speedway hai un rettilineo lungo dove riposarti (sul dritto la forza G è quasi zero), sul catino di Fort Worth non hai respiro, perché è una sopraelevata continua.
In un briefing tenutosi la domenica mattina, Olvey chiese ai 25 piloti presenti di alzare la mano se avevano subito sintomi da G-LOC. Tutti tranne due alzarono la mano. Di lì tutti capirono che la faccenda si stava facendo seria.
Epilogo
Il 29 aprile 2001, il giorno della gara in Texas, l’IndyCar riunì piloti, squadre e addetti ai lavori per decidere cosa fare. Ormai era chiaro a tutti che non vi erano le condizioni di sicurezza per correre. Ma era possibile salvare il weekend?
La prima idea fu quella di modificare l’assetto aerodinamico per aggiungere carico, ma le simulazioni dimostrarono che le vetture sarebbero divenute troppo instabili. Fu poi proposto di depotenziare i motori riducendo la pressione di aspirazione, ma ciò avrebbe compromesso l’affidabilità degli stessi. L’ultima spiaggia fu quella di trasferire la gara sul tracciato stradale ricavato nell’infield del catino, soluzione appoggiata anche dai gestori dell’impianto. Ma i team si opposero: passare da un ovale ad uno stradale avrebbe richiesto una vettura completamente differente, con relativo aumento dei costi.
Alla fine successe l’inevitabile: a due ore dalla partenza l’IndyCar annunciò ufficialmente la cancellazione della Firestone Firehawk 600 2001 al Texas Motor Speedway.
Post fatto
Il fattaccio di Fort Worth mise la CART nell’occhio del ciclone. L’opinione pubblica rimase divisa tra chi applaudiva il tentativo di non mettere in pericolo i piloti, e chi sosteneva che bisognasse prevedere l’imprevisto. Quest’ultima era condivisa da molti addetti ai lavori. In molti puntarono il dito verso i test, troppo pochi e per nulla indicativi. Il clima non aiutò: a febbraio si girava con temperature non superiori ai 12 gradi, mentre nel weekend della non gara splendeva il sole e c’era un caldo fuori stagione (26 gradi).
I più arrabbiati di tutti furono i gestori del Texas Motor Speedway, i quali fecero causa alla CART. Dopo mesi di udienze, le due parti si accordarono per un risarcimento tra i 5 ed i 7 milioni di dollari. Il contratto fu sciolto.
L’episodio del Texas del 2001 rimase un caso isolato, ma rappresentò l’inizio della fine per la CART. La storica serie non reggeva più il confronto con la IRL, la quale prosperava senza inconvenienti o quasi. Il travaso di sponsor, piloti e squadre fu sempre più ampio, portando il progressivo impoverimento della categoria. Un’agonia che finì al termine del 2002, quando la società finì in bancarotta. Ma questa è un’altra storia.