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NASCAR, lo show del motore che ritrae l’America

Se c’è un campionato automobilistico che più di ogni altro riflette la cultura del paese che l’ha creato, quello è certamente la NASCAR. Questo campionato è così differente da ogni altro, così radicato nel proprio territorio da sembrare quasi un monumento viaggiante. Per chi ama la cultura a stelle e strisce, e lo show a base di sportellate, velocità e motori ruggenti, il grande circo della National Association for Stock Car Auto Racing (è questo l’acronimo di NASCAR) è quello che fa per voi.

Come funziona il circo

Il campionato NASCAR riprende il concetto di stock car. In origine, tale termine indicava le vetture strettamente di serie (stock, appunto) le quali venivano alleggerite ed irrobustite per gareggiare sulle piste sterrate tipiche degli anni 50. Oggi la stock car rappresenta una vettura dalla tecnologia datata, poco costosa per far partecipare il maggior numero possibile di team. I motori sono dei V8 ad aste e bilancieri, le sospensioni posteriori a ponte rigido, i telai dei massicci tubolari di acciaio. Macchine vecchia scuola, che però di stock non hanno più niente: infatti, i bolidi sono progettati direttamente per correre, con l’aspetto di una macchina stradale.

Il regolamento NASCAR impone alle case costruttrici impegnate (Chevrolet, Ford e la straniera Toyota, che però gareggia con vetture made in USA) di fornire le componenti del motore prodotte in serie, ed uguali per tutti. Idem per le parti della carrozzeria, e per le appendici aerodinamiche. Tutto il resto può essere prodotto dai vari team, o acquistato da fornitori esterni. L’obiettivo è di livellare il più possibile le prestazioni tra i vari competitor, e quindi più spettacolo. Lo show qui è tutto.

Toyota Supra.

Il campionato NASCAR si compone di tre serie: la Monster Energy Cup Series, la XFinity Series e la Gander Outdoors Truck Series. Le tre categorie si distinguono tecnicamente per la potenza dei motori e per le dimensioni delle macchine. Le Cup sono più lunghe e potenti, e richiamano le poderose pony car come Chevrolet Camaro e Ford Mustang. Le vetture devono essere strettamente made in USA, con la sola eccezione della giapponese (ma assemblata in Kentucky) Toyota Camry. Le XFinity sono più corte e meno potenti, ma anch’esse richiamano le iconiche muscle car, più la Toyota Supra. La serie Truck, invece, corre con le versioni da gara dei celeberrimi pick up. La battaglia in pista è tra Chevrolet Silverado, Ford F150 e Toyota Tundra.

Gare infinte, a tappe

Le gare della NASCAR si distinguono per essere lunghe. Lunghissime. La Daytona 500, la gara che vale una carriera, dura 500 miglia (da cui il nome), o quattro ore. Certo, succede di tutto, tra sorpassi, incidenti e pace car, ma per il mondo frenetico di oggi è un tempo biblico. Risultato: gli ascolti in TV vanno giù. Per ovviare al problema, la NASCAR ha introdotto dal 2017 le stage racing, una cosa inedita nel motorsport. Ogni corsa è divisa in tre sezioni (stage), con punti assegnati ai primi dieci. Questo format ha vivacizzato in parte le gare, ma ha complicato la loro lettura: in una serie dove la semplicità regna sovrana, dove i pit stop avvengono con il buon vecchio cric invece dei martinetti idraulici, queste combinazioni farraginose stonano decisamente. E’ il prezzo da pagare per il grande spettacolo.

Campionato a eliminazione

Altro tratto tipico della NASCAR è l’assegnazione del titolo. Dal 2004, infatti, la Cup adotta un particolare sistema per aggiudicare il titolo piloti. I Playoff, così si chiamano ufficialmente, prevedono la suddivisione dell’infinito calendario (36 gare!) in vari step. Le prime 26 partenze costituiscono la Regular Season, nella quale i piloti devono guadagnarsi l’accesso ai Playoff. I primi sedici classificati nel segnapunti ottengono la qualificazione, con alcune eccezioni. La vittoria di gara, ad esempio, permette la qualificazione automatica, anche a chi non è classificato tra i primi sedici (deve comunque essere tra i primi trenta della classifica dei punti). Chi vince passa automaticamente avanti in classifica, e fa scalare gli altri. Per fare un esempio, se un pilota in diciassettesima posizione per i punti vince una gara, passa d’ufficio in zona playoff, e chi si trova sedicesimo in quel momento perde una posizione.

I Playoff durano dieci gare, e sono suddivise in quattro tappe ad eliminazione. Partendo da un punteggio base, vengono assegnati punti extra per le singole vittorie. Al termine di ogni tappa (Round of 16, Round of 12, Round of 8), vengono eliminati gli ultimi quattro piloti, fino a quando non si rimane con quattro pretendenti che si sfidano nel duello finale, la Championship 4. Chi arriva primo, vince. O meglio: chi arriva primo all’ultima gara vince, rendendo quasi inutili le 35 precedenti. Infatti, ogni round è composto di tre gare ciascuno, mentre l’ultimo solo di una, la finale. Alla fine di ogni tappa, il punteggio si azzera, come se il campionato fosse partito da lì. I paradossi di un sistema che vuole mantenere la suspence costante, anche a costo di costruirla artificialmente.

I playoff della XFinity e della Truck series funzionano allo stesso modo, ma essendo i loro calendari più brevi (33 gare per la XFinity, 25 per la Truck) i turni sono suddivisi in maniera differente.

Com’è andata nel 2019

Se c’è un team che quest’anno ha fatto la differenza è il Joe Gibbs Racing. La formazione di punta della Toyota ha vinto più gare di chiunque altro, 19, e ha piazzato ben tre piloti su quattro nella Championship 4. Lo sprint finale sul tracciato di Homestead ha premiato Kyle Busch, al secondo titolo in carriera. Il trentaquattrenne pilota di Las Vegas è il fantasista del gruppo, capace d’imprese memorabili e trionfi clamorosi. E di altrettanti eccessi che lo rendono spesso inviso ai fan.

Busch ha sbaragliato la concorrenza dei suoi compagni di team. Martin Truex Jr è il pilota più vittorioso quest’anno (sette successi), ma gli è mancato il primo posto più importante, l’ultimo. Per questo, l’iridato 2017 si è dovuto accontentare della piazza d’onore. Stesso discorso per Denny Hamlin, a cui non sono bastate sei vittorie ed un Playoff quasi perfetto per raggiungere l’obiettivo che il 39enne insegue da quasi un ventennio. A Homestead è bastato un surriscaldamento del motore per dire addio ai sogni di gloria.

Il dominio del team Gibbs ha costretto gli altri big a leccarsi le ferite. Il team di Roger Penske, ad esempio. La formazione del Capitano, fresco di acquisizione della IndyCar, è campione uscente con Joey Logano. Tuttavia, il ragazzo del Connecticut dalle lontane origini italiane è stato eliminato nel penultimo round e non ha potuto difendere il trofeo.

A far compagnia Penske nell’arena degli sconfitti c’è la Hendrick Motorsports. La scuderia di Rick Hendrick sta alla NASCAR come la Ferrari sta alla F1, ma ciò non è bastato per tionfare nel 2019. La crisi di risultati di Jimmie Johnson, recordman della categoria con i suoi sette titoli, non ha aiutato le sorti di un team che punta sul futuro più che sul presente. I compagni di team di Jimmie sono infatti dei ragazzi come Chase Elliott (tre vittorie quest’anno), Alex Bowman (una vittoria) e William Byron. Ragazzi di gran talento, ma ancora inesperti. E l’esperienza, qui, paga.

Sconfitti anche Ganassi e Roush Fenway. Il primo è una forza della natura in IndyCar, ma qui fatica a reggere il passo dei migliori nonostante piloti fenomenali come Kurt Busch e Kyle Larson. Il secondo, invece, è reduce da una lunga crisi in parte risolta dall’arrivo del veloce ed espertissimo Ryan Newman.

La XFinity Series è una categoria riservata ai giovani, ed infatti sono stati tre promesse a contendersi il titolo quest’anno. Tyler Reddick, Cole Custer e Christopher Bell sono stati i tre moschettieri che hanno dato battaglia a suon di vittorie, con l’aggiunta del quarto incomodo Justin Allgaier. Alla fine l’ha spuntata Reddick, alfiere di un team prestigioso come il Richard Childress Racing. Tyler, così come Bell e Custer, si sono guadagnati la promozione nella Cup.

Nella Truck series, infine, ha prevalso l’esperienza di Matt Crafton. Il pilota del team ThorSport è al suo terzo iride nella categoria del pick up, nonostante non abbia vinto neppure una gara quest’anno. Questo ha certamente reso più amara la sconfitta per Brett Moffitt, vincitore di ben quattro gare, e soprattutto di Ross Chastain. Il pilota del Niece Motorsports era il più accreditato dagli addetti ai lavori. Poca fortuna, infine, anche per Kyle Busch, che si è presentato nel campionato Truck in veste di team owner. Il Kyle Busch Motorsports ha scontato la poca costanza dei suoi giovani leoni, Todd Gilliland e Harrison Burton: nessuno dei due, infatti, è riuscito a qualificarsi per i playoff.