“Non vincerete più la coppa per 100 anni” | Questa frase ha reso celebre nel mondo del calcio la figura di Bela Guttmann, ma dietro a questa dicitura c’è dietro un personaggio carismatico e una storia da romanzo.
Facciamo un salto temporale lungo sessant’anni, tornando quindi al lontano 1960. Il tecnico ungherese Bela Guttmann lascia il buon vino e il panorama fiabesco di Oporto per raggiungere la vicina Lisbona.
Due città tanto vicine quanto distanti calcisticamente parlando: tra Porto e Benfica non è mai scorso buon sangue. Quindi pensate cosa possa accadere se un tecnico, perlopiù vincente, decida di passare da una sponda all’altra.
Il motivo poi è alquanto bizzarro: “Vado via a causa del clima freddo e della nebbia, che mi hanno procurato problemi alle costole”.
I tifosi biancazzurri invocavano la sua testa, nonostante l’anno prima abbia vinto il campionato grazie alla differenza reti proprio a discapito del Benfica.
A Lisbona vi arriva che ha 60 anni, anche se lui sostiene di averne 54. Ma alle Aguias i dati anagrafici poco importano, vogliono tornare subito a vincere.
Tuttavia una volta giunto nella città della luce si è subito scontrato con la dirigenza su questioni economiche. Il caro Bela Guttmann era cambiato nel corso del tempo, con il vil denaro che pian piano ha avuto un impatto sempre maggiore nei suoi pensieri.
Prima di firmare il contratto voleva garanzie dal punto di vista pecuniario: 400 mila escudos (centinaia di migliaia di euro oggi) più vari bonus al raggiungimento di determinati obiettivi.
“E se vincessi la Coppa campioni quanti me ne darete”? La sua richiesta. Secca la risposta del club: “Non la vincerai mai”. Il Benfica fino agli anni Sessanta non aveva una grande tradizione europea; seppur con molta ilarità e scetticismo promise a Guttmann un riconoscimento di ulteriori 300 mila scudi.
In Portogallo probabilmente non sapevano bene chi fosse Bela Guttmann ne il suo modo di allenare e spronare i calciatori; da qui nacque tutto questo scetticismo. Tuttavia poco tempo dopo cominciò a plasmarsi la “favola Benfica”.
A sua detta la squadra era troppo avanti con l’età e poco motivata, decidendo quindi di cambiarne l’ossatura. Via molti veterani e dentro tanti ragazzini semi-sconosciuti del settore giovanile.
La stella di questa squadra aveva un identikit ben preciso ed un nome: Eusebio. Il tecnico magiaro sentì parlare di questo diciottenne mentre era dal barbiere. In Mozambico era soprannominato la ‘Pantera Nera’ per la sua agilità e la sua grinta.
Guttmann si mise subito a lavoro e dopo qualche scambio di lettere con dei colleghi riuscì a soffiare il ragazzo ai rivali cittadini dello Sporting Lisbona.
Eusebio fu la ciliegina sulla torta del Benfica dei miracoli: da qui in avanti i biancorossi vinceranno un campionato e due Coppe dei Campioni, rispettivamente contro Barcellona e Real Madrid.
Particolare fu la finale contro i blancos guidati dal tandem offensivo composto da Di Stefano e dal suo amico e connazionale Puskas. Alla fine del primo tempo il Benfica era sotto per 3-2, ma negli spogliatoi Bela Guttmann disse ai suoi: “La finale è vinta, loro sono morti”.
Nella seconda parte dell’incontro pone Cavém in marcatura costante sul mitico Di Stefano, al fine di non far arrivare rifornimenti a Puskas. Una mossa tattica che si rivelò vincente: le aquile vinsero 5-3 e alzarono al cielo la loro seconda Coppa Campioni.
Il punto forte di quella fantastica squadra era il modulo: un 4-2-4 votato all’attacco che trovò moltissimi estimatori in giro per il mondo.
“Pasa-repasa-chuta, marca e desmarca”: questo era il suo motto, che si traduce in: “passa-ripassa-tira e marca se sei in difesa”.
Una mentalità ultra offensiva che fu molto apprezzata dal c.t. brasiliano Vicente Feola, che gliela ‘rubò’ nel vittorioso mondiale del 1958.
Nonostante i successi europei, la stampa gli criticò la non conquista nel campionato, che concluse al terzo posto. Bela Guttmann rispose quindi con un’altra frase che lo rese celebre:
“Il Benfica non ha il culo per sedersi su due sedie”.
Nonostante i riflettori fossero tutti su di lui in quel momento, il suo rapporto con la società lusitana si stava pian piano incrinando. A dividere le parti nuovamente questioni economiche, con il Presidente che non intendeva pagargli il bonus promesso per la vittoria della Coppa Campioni.
Bela Guttmann non volle sottostare ai voleri del club, lanciando quindi la famosa maledizione: “Da qui a cento anni nessuna squadra portoghese sarà due volte campione d’Europa e senza di me il Benfica non vincerà mai una Coppa Campioni”.
Per la prima affermazione il computo è fermo a quota uno, con il successo in Champions League del Porto targato José Mourinho nel 2004.
Più preoccupante la situazione riguardante il Benfica: dal 1962 in poi i lusitani hanno disputato 8 finali europee, non sto qui a dirvi l’esito, credo che voi lo capiate autonomamente.
Secondo una leggenda portoghese il suo allievo Eusebio andò a pregare sulla tomba del ‘Maestro’ a Vienna, per porre fine a questa maledizione. Pochi giorni dopo al Prater si sarebbe disputata la finale di Coppa Campioni del 1990 tra i portoghesi e il Milan.
Come finì? Nessun perdono, i rossoneri vinsero grazie ad un gol di Rijkaard.
In realtà prima della sua morte – 1981 – Bela torna a guidare il Benfica nel 1965/66 ma senza fortuna. Anzi da alcuni viene addirittura accusato di fornire ai suoi calciatori sostanze dopanti.
Un personaggio ambiguo Bela Guttmann, che ovunque sia andato ha fatto parlare di sé. Era figlio di due ballerini ebrei residenti a Budapest: lui stesso a sedici anni aveva già la licenza per poter insegnare danza.
Tuttavia la sua vocazione era un’altra, ossia quella di giocare a calcio. In breve tempo appese al chiodo le scarpette in punta per indossare quelle con i tacchetti. Riuscì subito ad entrare nelle grazie delle migliori squadre della capitale.
Diventa anche un perno della nazionale ungherese fino al 1924, che lascia a causa di un dissidio con la dirigenza. Il tutto si concluse con Bela Guttmann che appende dei topi morti davanti alle porte dei dirigenti….
Bela è stato un autentico giramondo, forse il primo caso autentico di calciatore-allenatore cosmopolita. Ungheria, Austria, Stati Uniti, Cipro, Romania, Italia, Uruguay, Brasile sono solo alcune delle nazioni in cui ha operato.
Decide di lasciare Budapest per trasferirsi in Austria non solo per ragioni sportive. Infatti la salita al potere di Miklós Horthy ha fatto precipitare l’Ungheria nell’antisemitismo. Lui giudeo, ha preferito salvaguardare se stesso e la sua famiglia.
Qui si accasa allo Hakoah Vienna, squadra con radici ebraiche. Al momento della firma del contratto fa una delle sue bizzarre richieste: “Voglio giocare sempre con una maglia in seta”.
Con gli austriaci Bela Guttmann torna a salire alla ribalta, diventando anche all’unanimità il miglior talento del Danubio.
Tuttavia il suo bisogno di spostarsi, confrontarsi con nuove culture e altri modi di intendere il calcio prende il sopravvento. Valigie in mano in direzione Stati Uniti d’America. Qui si stanzia a New York, mosso soprattutto dall’interesse di raccogliere fondi per la causa sionista.
La sua prima apparizione nella Grande Mela è al Polo Grounds, dove sono presenti quasi 50 mila spettatori. Un numero spropositato in quei tempi per una partita di calcio, perlopiù in America, dove il soccer era nella sua fase primordiale.
Infatti lo stesso Bela Guttmann ricordava: “Quando abbiamo disputato la nostra prima partita a New York gli spettatori conoscevano così male il calcio da confonderlo col football americano. I gol segnati li lasciavano completamente freddi, ma i tiri forti che uscivano ben alti dietro la porta erano presi per i punti del rugby e suscitavano uragani di applausi. Capita l’antifona e dato che stavamo vincendo nettamente ci siamo sbizzarriti a “sparare” lontano. Alla fine mi hanno portato in trionfo”.
La sua esperienza nel Nuovo Continente procede bene: ottimi guadagni e grande celebrità. In più fonda con alcuni magiari rimasti negli Usa gli Hakoah All Stars, una specie di antesignani dei più famosi Harlem Globe Trotters in salsa magiara.
A scombinare i loro piani il giovedì nero del 1929, con la caduta di Wall Street. Tutto il gruppo di emigranti ungheresi finisce in rovina, con Guttmann che è costretto a dare lezioni di danza per mandare avanti il carro.
Ritorna in Europa con una laurea in psicologia e con la voglia di diventare allenatore , ma trova un continente frastagliato e pronto ad un imminente scontro mondiale.
Decide quindi di scappare dall’Olocausto, nel quale perderanno la vita il padre, il fratello e la sorella. Non si sa bene in quegli anni di guerra dove Bela si sia rifugiato: alcuni sostengono che fosse internato in Svizzera, altri che fosse scappato in Brasile.
La seconda tesi trova maggiori riscontri: infatti dopo la fine delle guerra l’austro-ungherese sfoggiò un portoghese perfetto.
Una volta tornata la calma nel mondo, Bela Guttmann tornò a navigare per vari paesi a caccia del suo eden calcistico. Nel 1948 fa tappa in Italia, precisamente a Padova, dove però non ha molta fortuna.
Decide quindi di spostarsi qualche chilometro più ad est verso Trieste, ma nel 1950 viene sospeso. Qui è accusato di essersi intascato una mazzetta sull’acquisto del giovane portiere croato Monsider. Poi vince il ricorso e ottiene la riabilitazione.
Abbandona l’Italia per ragioni di salute della moglie, che necessita di un clima mediterraneo, andando a Cipro.
Pochi mesi dopo arriva forse la più grande chiamata della sua carriera: il Milan del nuovo proprietario Andrea Rizzoli gli offre un posto prima da direttore tecnico e poi da allenatore.
Era l’epoca del mitico Gre-No-Li svedese (Gren, Nordahl, Liedholm) a cui si aggiunsero poi Cesare Maldini e Pepe Schiaffino.
La stagione dei rossoneri procedeva a gonfie vele, ma l’allora 54enne tecnico venne silurato per scarsi risultati nonostante fosse primo in classifica.
Guttmann abbandona il Milan in conferenza stampa sorridendo e facendo un inchino ai giornalisti accorsi affermando: “Sono stato licenziato anche se non sono né un criminale né un omosessuale. Addio”.
Da lì in avanti chiederà nei suoi contratti una clausola che vieta di licenziarlo nel caso in cui la squadra sia in testa alla classifica.
L’esperienza meneghina di Bela Guttmann finisce nel peggiore dei modi: mentre guida per Milano con la sua auto, investe due scolari uccidendone uno. Ottiene un rinvio a giudizio, motivo per il quale abbandona l’Italia, voglioso di un periodo di riposo.
Qualche anno dopo continuò il suo valzer di panchine in tutto il globo fino ad arrivare in Portogallo. Lì diventò leggenda, e lì ancora giace quella famosa maledizione.
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