Dagli spalti è facile criticare: eppure tutti sono concordi nel non capire perché Montella si ostini a giocare senza un attaccante, anche di fronte all’evidenza (come mercoledì scorso con il Sassuolo) della necessità di una punta di riferimento per un centrocampo povero di idee. Boateng – lento e fuori ruolo – è il suo ultimo pallino, a spese dello scalpitante Vlahovic. Ma questa storia parte da lontano.
Montella è uomo di grande autostima; propenso ad adattare gli uomini agli schemi e non il contrario, come fanno i grandi allenatori, e forse anche compiaciuto dallo spiazzare la critica schierando formazioni a sorpresa o insistendo su giocatori che stima solo lui. Solo che non è nelle condizioni di Conte o Klopp, che chiedono – e soprattutto ottengono – top player in grado di far funzionare l’idea di calcio che hanno in testa. Togliete a Conte (che pure ha una rosa fortissima) Lukako e Lautaro e vediamo cosa succede al suo 3-5-2.
Ma Montella si sente manager, e non da adesso. Nella sua prima esperienza fiorentina, per due anni si avvale dell’altissimo rendimento di un centrocampo che, almeno sulla carta, nasce come scommessa: l’attempato Pizarro, il sempre-infortunato Aquilani e lo sconosciuto appena retrocesso Borca Valero, integrati dal libero con i piedi buoni Gonzalo Rodriguez, anche lui reduce da una stagione da dimenticare, e dalla verve di Juan Quadrado. Sono loro che fanno girare la squadra, esaltando due attaccanti atipici dal futuro breve (Liajic e Jovetic). Il 3-5-2 nasce da questa miscela indovinata di giocatori.
L’anno successivo Montella chiede e ottiene l’arrivo del centravanti tedesco Mario Gomez da affiancare a Giuseppe Rossi (ristabilito dai suoi problemi fisici) e Quadrado; dal 3-5-2 passa al più offensivo 4-3-3, ma le cose non vanno come sperato. Rossi si infortuna di nuovo e Gomez si rivela una delle più grandi delusioni della storia viola. Nonostante questo, la squadra centra nuovamente il quarto posto.
Il terzo anno di Montella a Firenze è salvato dall’arrivo a gennaio di Salah (parziale contropartita in prestito dalla cessione di Quadrado), che con i suoi gol tiene a galla la squadra sia in campionato che in coppa. Di nuovo quarto posto, poi è la rottura: lui vuole nuovi investimenti, i Della Valle hanno deciso di smobilitare, e le strade di dividono.
Seguono tre esperienze fallimentari alla Sampdoria, Milan e Siviglia. Poi il clamoroso ritorno a Firenze – uno score da brividi nelle partite che seguono l’esonero di Pioli, e finalmente Pradé gli allestisce una squadra adatta alle sue idee. Dopo l’arrivo di Ribéry, è di nuovo 3-5-2: modulo che permette buona copertura, ma a scapito di una certa prevedibilità nello sviluppo della manovra e in zona gol. Ma per qualche partita la differenza la fanno il vecchio campione francese e l’esplosività di Chiesa, capaci di inventarsi sempre qualcosa. Anche di mascherare il problema più grande, che questa squadra gioca sempre sotto ritmo. Così subiamo le squadre più forti, ma anche le meno forti, che, non avendo campioni a cui affidarsi, corrono e pressano a tutto campo.
Ma Montella, che non sembra curarsi di questo aspetto, anche senza Ribéry e con Chiesa sotto tono, persiste con le sue idee adattando i giocatori alla sua idea di calcio. Anche con il Parma rinuncia a schierare una vera punta, inverte di piede le due ali che non saltano mai l’uomo intasando le fasce, dove Dalbert, senza Ribéry che gli fa spazio e porta via sempre due difensori, non trova mai il fondo per crossare, e quando lo fa, al centro non c’è nessuno. Il falso 4-3-3 dell’allenatore viola è in realtà un 4-5-1, dove il falso nueve (Boateng) più che non dare punti di riferimento alla difesa del Parma, non riesce a darne all’attacco viola.
Ci vuole il gol del Parma, e altri venti minuti di riflessione per correre ai ripari inserendo Vlahovic e rimettendo Chiesa dalla sua parte: e non è un caso se la squadra di D’aversa finalmente comincia a soffrire e la Fiorentina trova il gol col suo nuovo golden boy Castrovilli. Una modifica tattica che ognuno dei trentamila presenti sugli spalti avrebbe fatto sin dal 1° minuto, ma non Montella.
Perché lui ha le sue idee, e non sembra curarsi delle critiche, anche contro l’evidenza di un gioco che non c’è e di risultati che non arrivano. Naturalmente il tempo potrebbe dare ragione a lui e non a tutti gli altri: anche questo tener duro è una posizione da grande manager, e saremmo contenti come non mai di essere noi dalla parte del torto.