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Pelé good, Maradona better, George Best

Se chiedeste ai tifosi dello United, o magari a degli appassionati di calcio inglese, chi sia stato il più grande giocatore di tutti i tempi, in molti vi darebbero la stessa risposta: George Best.

George era un ragazzo insicuro, poco più alto di 1,70 m, che, sin da bambino, lasciava parlare i piedi. Nato e cresciuto in un quartiere povero di Belfast, il piccolo George, all’epoca era tifoso del Wolverhampton, ovvero dei “Champions of the World”, come intitolavano i tabloid inglesi dopo una serie di vittorie amichevoli contro le più grandi squadre europee alla fine degli anni ’50 (il Real Madrid, il Valencia, l’Honved di Puskas). C’era però un problema di fondo: George non aveva la TV, per questo faceva spesso visita al suo vicino di casa, anche lui tifoso dei Wolves.

Oltre all’amare i colori Nero e Arancione, il figlio dell’ operaio della Harland & Wolff (cantiere navale dove fu costruito il Titanic) tifava anche per la squadra del suo paese, il Glentoran. La squadra attualmente milita nella massima divisione nordirlandese, e ai tempi lo scartò perché “troppo gracile”. In effetti era così, era troppo magro, troppo piccolo, troppo leggero, ma di talento ne aveva, e anche tanto, era solo questione di tempo, prima o poi sarebbe arrivato qualcuno.

Quel qualcuno fu Bob Bishop, che in quel momento stava cercando nuovi talenti per un Manchester United in ricostruzione, dopo la tragedia di Monaco di Baviera, dove l’aereo dei Red Devils, di ritorno da una trasferta di Coppa dei Campioni contro la Stella Rossa di Belgrado, si schiantò sulla recinzione che circondava l’aeroporto di Monaco, a causa di un malfunzionamento dei motori.

Morirono in tanti, tra cui Duncan Edwards, astro nascente del calcio inglese che, sopravvissuto allo schianto, chiuse definitivamente gli occhi in ospedale a 15 giorni dall’accaduto. Si salvarono però Matt Busby, l’allenatore di quello United, Bill Foulkes e Bobby Charlton, ovvero tre delle quattro pedine fondamentali che permetteranno agli inglesi di salire sul tetto d’Europa; la quarta era, ovviamente, il protagonista di questa storia.

Best, dunque, all’età di 15 anni, fa le valigie e parte, direzione Manchester, per un provino. Il suo soggiorno, però, durò solo 2 giorni, perché la nostalgia di casa si fece sentire parecchio. Ma il suo destino era più forte della sua volontà. George tornò a Manchester poco dopo e ci rimase per tanto tempo, ben 13 anni, dal 1961, anno in cui fu aggregato alle giovanili del club, fino al 1974, capolinea della sua avventura in maglia rossa.

Vinse tanto, 2 campionati inglesi, 2 Charity Shield, 1 FA Cup, ma soprattutto 1 Coppa dei Campioni, nel 1968, il culmine della sua carriera. Non fu una stagione normale, anzi, non fu un anno normale. Fuori dall’Inghilterra, fuori dall’Europa, nella città di Berkeley, California, un universitario italoamericano di nome Mario Savio poggiò le basi per la più grande rivoluzione studentesca della storia, ricordata da tutti semplicemente come “il 68”.

Come detto, quell’anno lo United diventò la prima squadra inglese a vincere una Coppa dei Campioni (l’anno prima toccò agli scozzesi del Celtic), e quel genio con la maglia numero 7 avverò il più grande sogno della carriera di Matt Busby.

Dopo il trionfo lo scenario cambiò. Best rimase ancora sei anni a Manchester, ma la sua vita di eccessi cominciò a dargli problemi, e di lì a poco il quinto Beatle (così chiamato per il look molto simile a quello di 4 ragazzi di Liverpool che qualcosina hanno fatto in ambito musicale) si perse, iniziò a giocare meno e a bere di più, intraprese la vita della rockstar.

Nel 1974 si sciolse il suo legame con la società di Manchester e si ritrovò senza squadra a soli 28 anni, così iniziò a girovagare per il mondo: prima lo Stockport County, che allora militava nella quarta serie inglese, poi Irlanda, Stati Uniti, Scozia, Cina, Australia, di nuovo Inghilterra col Fulham e con il Bournemouth, per poi ritirarsi nel 1984 con i nordirlandesi del Tobermore United, con cui fa solo un’apparizione in coppa.

Dopo il ritiro George Best si ammalò, a causa della sua dipendenza dall’alcool, ma, prima di andarsene per sempre volle lanciare un ultimo segnale. Sul letto di morte, a 59 anni, volle a tutti i costi che un giornalista entrasse nella sua stanza d’ospedale a Londra, che gli scattasse una foto in fin di vita,  e che la pubblicasse, seguita da un titolo forte, “Don’t Die Like Me”, non morite come me, in modo da lasciare un messaggio ai giovani, quello di godersi la vita ma senza esagerare, senza rischiare che uno stupidissimo vizio possa privarli di tutto.

Quindi sì, magari George avrebbe dovuto essere più continuo, avrebbe dovuto dominare la scena europea e mondiale per più tempo. Indubbiamente, però, ha lasciato un’impronta forte nel panorama calcistico, l’esempio perfetto dell’espressione “genio e sregolatezza”. Nel 2006, ad un anno esatto dalla sua morte, gli fu intitolato l’aeroporto di Belfast, un gesto bizzarro per ricordare uno dei più grandi del calcio mondiale. Ancora oggi, infatti, in Inghilterra si sente riecheggiare la frase: “Pelé good, Maradona Better, George Best”