Nella sua vita ha combattuto non solo sul ring, esaltando la folla per l’imprevedibilità e la velocità con cui affrontava gli avversari, ma soprattutto si è battuto contro un’ingiusta condanna e una detenzione per un plurimo omicidio che non aveva mai commesso. Rubin Carter, ex peso medio statunitense, si è spento il 20 aprile 2014, a 76 anni, nella sua casa canadese di Toronto. Se n’è andato placidamente, nel sonno. L’annuncio all’epoca è stato dato da John Artis che, finito in carcere come suo complice, nel tempo è diventato grande amico e assistente dell’ex atleta.
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Il boxeur è passato alla storia anche per il suo soprannome di «Hurricane». È stato il pubblico a definirlo così per i suoi colpi repentini e implacabili, per la potenza che sprigionava sul ring e anche per l’immagine che incuteva timore, con il capo rasato e lo sguardo da vero combattente. Carter è deceduto quasi certamente per un peggioramento delle sue condizioni di salute profondamente minate da un tumore alla prostata che gli era stato diagnosticato circa tre anni prima. Artis, nel ricordare l’amico scomparso, ha sottolineato che si è trattato di una grave perdita anche e soprattutto per «tutti coloro che sono stati ingiustamente carcerati». Infatti ha sottolineato che, nel corso della sua esistenza, l’ex pugile si è sempre impegnato per dare un aiuto e una valida assistenza a quelle persone che, come lui, tutto ad un tratto si erano ritrovate travolte da accuse infondate, finendo anche in galera da innocenti.
Il nome dell’ex fuoriclasse della boxe è divenuto simbolo di ingiustizia soprattutto di stampo razzista fin da quando il 17 giugno 1966 venne accusato di aver commesso un triplice omicidio a Paterson, nel New Jersey. In seguito alla testimonianza di due criminali (che poi ritrattarono) Alfred Bello e Arthur Bradley, fu condannato a ben due ergastoli. In seguito alla riapertura del processo ottenne la libertà nel 1976 ma il suo calvario non terminò perché, raggiunto da un’altra condanna, tornò in prigione per altri nove anni. La scarcerazione definitiva avvenne soltanto nel 1985 quando l’accusa si rifiutò di agire nuovamente contro di lui per l’illegittimità processuale dichiarata dalla Corte Federale. L’innocenza di Rubin Carter fu dimostrata fin troppo tardi, nel 1988. Infatti aveva ormai trascorso ben 19 anni da detenuto per un triplice delitto di cui non si era mai macchiato.
Il drammatico calvario giudiziario di Rubin Carter
La tormentata esistenza di Rubin Carter e l’ingiustizia che ha dovuto subire ha ispirato Bob Dylan a dedicargli un brano, Hurricane, scritto dopo aver letto l’autobiografia «The Sixteenth Round». Nel 1999 al cinema è arrivato anche un film basato sulla carriera e sulla battaglia giudiziaria dal titolo «Hurricane-Il grido dell’innocenza», per il quale l’attore Denzel Washington ottenne anche una candidatura agli Oscar.
Tutto cominciò il 17 giugno 1966 quando, intorno alle 2:30 del mattino, due uomini di colore fecero irruzione al locale Lafayette Bar and Grill di Paterson, nel New Jersey, aprendo il fuoco all’impazzata. Fred Cedar Grove Bob Nauyoks e il barista Jim Oliver morirono subito, mentre la sfortunata Hazel Tanis, colpita alla milza, allo stomaco, all’intestino, alla gola, al polmone sinistro e ad un braccio spirò in ospedale. Una quarta persona, di nome Willie Marins, riuscì a salvarsi miracolosamente anche se perse la vista ad un occhio.
Il testimone Alfred Bello notò un’automobile nei pressi del negozio che, dopo la sparatoria, si allontanò in tutta fretta verso Ovest con due uomini di colore alla guida. Il modello corrispondeva con quello di proprietà di Carter, e così la polizia lo fermò insieme a John Artis, circa mezz’ora dopo la strage. Durante la perquisizione, gli agenti trovarono una pistola calibro 32 e alcuni proiettili per un fucile calibro 12 che corrispondevano a quelli esplosi dai criminali. E così, nonostante i testimoni non li avessero riconosciuti, il pugile e il suo amico furono tratti in arresto.
Hurricane fu condannato per il triplice omicidio, ma fin da subito l’opinione pubblica difese l’atleta e manifestò la propria indignazione per quella che era stata una sentenza legata esclusivamente a motivi razziali. Nel mirino delle polemiche e dei sospetti finì in particolare la giuria che – guarda caso – era formata esclusivamente da bianchi. Per questo motivo, l’amato boxeur diventò anche il simbolo della lotta contro le ingiustizie discriminatorie.
La carriera di Hurricane Carter
Nonostante il carcere e quell’infondata accusa che sarebbe caduta definitivamente solo negli Anni ’80, Rubin Carter non ha mai messo da parte la sua passione per la boxe, e quando ormai era già maturo, lavorò come motivatore di giovani atleti. Nacque a Clifton, nel New Jersey, il 6 maggio 1937 e, nel periodo di attività agonistica compreso tra il 1961 e il 1966 riuscì a inanellare 27 vittorie, con 12 sconfitte e un solo pareggio in 40 incontri complessivi. Collezionò 8 knockout e 11 knockout tecnici. Era alto 173 centimetri e, nonostante non avesse un’altezza tipica di un peso medio, riuscì comunque a competere con successo in questa categoria.
Acclamato dal pubblico per la velocità e per il carattere battagliero, riuscì a battere nomi altisonanti del mondo della boxe quali Florentino Fernandez, Holley Mims, Goneo Brennan e George Benton. Nel luglio del 1963 ottenne la grande soddisfazione di essere inserito nella Top-10 della rivista Ring Magazine. Il 20 dicembre sorprese ed entusiasmò tutti, riuscendo a mandare due volte al tappeto nel primo round Emile Griffith, ex e poi futuro campione del mondo, vincendo poi il match per KO tecnico. Nel 1993 gli venne consegnata la cintura di campione del mondo dal World Boxing Council.